Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale esaminato dalla commissione c.d. Cartabia e prossimamente all'attenzione del Parlamento.
Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.
Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.
Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.
Proseguiamo oggi con la sezione Depositi e notifiche, per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Lorenzo Jannelli (giudice), Ferdinando Lo Cascio (pm), Giovanna Ollà (avvocato) e Nike Cascini (docente).
La risposta del giudice: La libertà di forme nel deposito di atti è astrattamente una soluzione ideale per non scontentare nessuno. Chiunque puòutilizzare le modalità di deposito più consone alle proprie necessità del momento per proporre una istanza nellacancelleria o nella segreteria di un ufficio giudiziario. Tuttavia la molteplicità di forme di deposito si scontra con l’esigenza di efficienza e celerità che il decreto delegato dovrà assicurare, esigenza connessa alla risposta giudiziale e, soprattutto, alla organizzazione dell’azione amministrativa ad essa collegata. Il disegno di legge prevede, invero, una regola generale di alternatività tra analogico e digitale (“nei procedimenti penali in ogni stato e grado, il deposito di atti e documenti [deve poter] essere effettuato anche con modalità telematiche”), salvo eccezioni. Sarà il decreto delegato, dunque, a farci capire in che modo il Governo ha pensato di declinare tale libertà di forme. Resta il fatto che la duplicità di registri cartacei e telematici, da consultare, aggiornare e tenere sotto controllo, raddoppia il lavoro del personale amministrativo e ingenera obiettivamente confusione. Analogamente a quanto introdotto dalla disciplina emergenziale, il decreto legislativo prevede la possibilità di undeposito telematico obbligatorio, ma solo per alcune categorie di atti (la cui individuazione sarà rimessa a successivi decreti ministeriali – non regolamentari - emessi, stavolta, a seguito di un contraddittorio con il CNF e l’Avvocatura generale dello Stato; in tal senso, la modalità concertata è certamente più tranquillizzante per il foro, ma non pare confrontarsi con i dubbi sollevati da più parti in ordine alla individuazione da parte di una fonte non legislativa). La prospettiva dell’approccio telematico (salve le eccezioni che possono verificarsi in caso di malfunzionamento e che sono regolate, secondo il d.l., da parte del dirigente dell’ufficio) pare, tuttavia, essere l’orizzonte verso cui proseguirà lentamente ma inesorabilmente il deposito degli atti penali, fino a quando non interverrà – e lo si auspicaimminente - un repository di atti che, analogamente a quanto avviene per il processo civile, costituisca il contesto digitale di ogni passaggio processuale. La previsione di casi di deposito obbligatorio (ma, pur sempre graduale, secondo le valutazioni rimesse al Ministro della giustizia di turno) può, dunque, non sembrare particolarmente liberale, ma può rivelarsi opportuna, anzi necessaria per favorire il passaggio a modalità d’azione che, altrimenti, verrebbero ostacolate da ostinate abitudini dicarattere cartaceo. “Avvocato, quando ha depositato? A quale collega si è rivolto?” sono domande che il professionista, con l’avvento delle tecnologie digitali non dovrebbe più sentirsi porre se il mezzo di deposito è unico, telematico, facilmente controllabile da tutti attraverso un clic. Ovviamente sempre che il Ministero, parallelamente alle riforme tecnologiche, garantirà la presenza di adeguate risorse di personaleamministrativo che siano in grado di far funzionare le nuove tecnologie.
La risposta del pm: Se fosse possibile ritenere che da una situazione emergenziale – quale l’attuale pandemia –possa derivare qualcosa di utile per migliorare il sistema giustizia, questo potrebbe proprio essere il caso giusto. Prevedere cioè la possibilità di effettuare il deposito telematico degli atti e dei documenti, mi sembra un notevole passo in avanti verso la tanto agognata telematizzazione del processo penale, con innegabili vantaggi per tutte le parti, e ciò anche laddove ne fosse prevista l’obbligatorietà. Del resto il progetto di riforma prevede comunque dei temperamenti a tale sistema – coinvolgendo a tal fine tutte le parti interessate – nei casi in cui gli strumenti telematici non funzionino correttamente e sussistano delle situazioni di urgenza (scadenza termini). Potrebbe comunque essere utile prevedere dei casi limite in cui occorra necessariamente produrre documenti di non facile scansione. In conclusione, non mi sembra che l’obbligatorietà di tale forma di deposito – con gli opportuni temperamenti per casi eccezionali – possa ledere in alcun modo il diritto di difesa o ostacolare la difesa tecnica, che semmai dovrebbe esserne agevolata.
La risposta dell'avvocato: E’ certamente possibile prevedere ipotesi di deposito telematico obbligatorio laddove l’intenzione del legislatore sia quella di sostituire il deposito analogico con quello telematico. E’ tuttavia necessario limitare la delega al DGSIA che deve avere ad oggetto esclusivamente le specifiche tecniche relative al formato degli atti. Al contrario, il primo “ approccio “ al processo penale telematico, di cui all’art. 24 del Decreto legge 137/2020 convertito con la legge 176/2020, si è rivelato fallimentare anche a causa della previsione, da parte del DGSIA, della allegazione, al momento del deposito telematico, del c.d. “ atto abilitante”, categoria “sconosciuta “ al codice di procedura penale e che dovrebbe appunto abilitare il difensore al deposito, anche quando quest’ultimo sia già in possesso dei dati richiesti, questi si ragionevolmente, per accedere al portale (numero di RGNR e nome del Pubblico Ministero titolare delle indagini). In ogni caso il momento della obbligatorietà del deposito tramite portale deve essere preceduto da una adeguata fase di sperimentazione durante la quale deve essere consentito anche il deposito analogico, come peraltro avvenuto con il Processo Civile Telematico.
La risposta del docente: Prima di rispondere al quesito ritengo opportune due considerazioni di metodo. La prima: tutte le riforme che fino a questo momento hanno interessato il codice di procedura penale sembrano avere quale comune denominatore l’efficienza, e questo credo sia l’aspetto più problematico perché spesso questo obiettivo è stato perseguito creando distorsioni nella struttura processuale a detrimento della tutela di diritti e garanzie che nelle forme processuali trovano il primo e più solido presidio. L’altra considerazione è rivolta, invece, alla carenza, nel linguaggio legislativo, delle opportune precisazioni di carattere tecnico dal punto di vista lessicale: si parla indistintamente di atti, documenti e notificazioni equiparando termini che, in realtà, hanno una precisa definizione codicistica e devono necessariamente essere tra loro distinti sia da un punto di vista funzionale, sia avendo riguardo al destinatario del singolo atto, documento o notificazione. Ciò posto, se da una parte credo che il deposito telematico possa rappresentare un eccezionale momento di riforma per un processo penale che oramai non è più in grado di rispondere alle esigenze della collettività, dall’altra temo che la struttura amministrativa non sia ancora pronta. Catalogare i casi di deposito telematico obbligatorio rappresenta solo la punta dell’iceberg, in quanto prima della predisposizione di questo elenco sarebbe auspicabile costruire un meccanismo più completo, che abbia come punto di partenza la predisposizione del fascicolo penale telematico, accessibile dai soggetti che ne hanno interesse, all’interno del quale poter di volta in volta depositare i singoli atti che così sarebbero immediatamente disponibili alle parti e al giudice. A ben vedere, l’introduzione del deposito in assenza di un fascicolo telematico rischia di depotenziare l’innovazione: se da una parte sarebbe utile al mero scopo di evitare all’avvocato di recarsi in cancelleria per procedere al deposito, agevolando così tempi e modi dello stesso, e determinando l’efficienza dal punto di vista della difesa, dall’altra non esimerebbe il cancelliere dalla stampa dell’atto e dalla sua collazione nel fascicolo cartaceo. Dunque, pensare solo alla lista di atti da depositare obbligatoriamente sembra un rimedio parziale e insufficiente nell’ottica della effettiva implementazione del processo penale telematico. Poste tali premesse, credo che non sia utile distinguere un deposito facoltativo da uno obbligatorio, in quanto sarebbe molto alto il rischio di confusione e disorientamenti. Da ultimo, nel caso in cui si decida di seguire la linea del deposito telematico, sicuramente è imprescindibile l’allestimento di un meccanismo di risposta automatica – così come sembra nei pensieri del legislatore – idoneo a dare certificazione alla parte dell’avvenuto deposito. Solo in tal modo si appresterebbe un rimedio teso a evitare contestazioni sulla tempestività del deposito e prima ancora sul compimento stesso del medesimo, nei casi in cui l’atto non sia rinvenuto nel fascicolo per un errore della cancelleria. L’esperienza maturata sul versante del rito civile potrebbe insegnare molto e aiutare a prevenire questo tipo di problematiche.
La risposta del giudice: Incurante del noto proverbio secondo cui “presto e bene raro avviene”, il disegno di legge delega si propone di spingere l’acceleratore per accorciare i tempi del processo penale e, dunque, pur mantenendo fermi i principi di origine convenzionale recentemente riconosciuti con riferimento al procedimento in absentia (tradottisi nella necessità di assicurare una conoscenza effettiva del procedimento da parte dell’imputato), muove da una considerazione difficilmente contestabile: la maggior parte dei rinvii viene decisa per problemi inerenti la disciplina sulle notificazioni, la cui diversa interpretazione (non sempre agevole come testimoniano le recenti SS.UU. n. 23948/2020 in tema di elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio) in sede di impugnazione rende, talvolta, interi percorsi processuali del tutto inutiliter dati, con inammissibile spreco di tempo e di risorse. Da tale consapevolezza, si parte per introdurre una ridefinizione degli oneri processuali connessi alle comunicazioni e notificazioni a soggetti diversi dall’imputato e, comunque, nelle notificazioni all’imputato successive alla prima, valorizzando il rapporto tra difensore e assistito e sussumendolo fino a farlo diventare rilevante ai fini della conoscenza delle stesse attività processuali. Il disegno di legge si spinge ad ammettere con riferimento al nuovo regime di comunicazioni “agili” che l’obiettivo è “limitare tale forma di partecipazione degli atti ai soli casi in cui tra l’imputato e il professionista sussista un rapporto tendenzialmente solido o, comunque, la possibilità concreta di intrattenere unrapporto effettivo”. È un sollievo per l’intera categoria che non sia richiesto un rapporto affettivo con il cliente. Fuori dalla battuta, ciò che appare rilevante è che, nell’impianto del disegno di legge, dopo l’avvenuta conoscenza del processo, l’assistito viene responsabilizzato ed è tenuto a comunicarerecapiti certi al proprio difensore di fiducia, il quale sarà a sua volta chiamato a fare da tramite con lui anche per le comunicazioni, ricevendo in cambio comunque un esplicito esonero da responsabilità per ogni difetto di comunicazione imputabile al cliente (il che suona vagamente tautologico; sarebbe il caso di indicare, quantomeno, una casistica di ipotesi di difetto di comunicazioni non imputabili al difensore). L’obiettivo della nuova disciplina è, ad avviso di chi scrive, senz’altro auspicabile, anche se l’onere processuale viene spostato sul difensore. Non si può non concordare, in effetti, che, una volta avviato il processo e garantita una conoscenza dello stesso da parte dell’imputato che ha scelto di costituire un rapporto professionale fiduciario, sia proprio il difensore il soggetto sul quale viene a gravare lo sforzo di far capire al proprio assistito il senso delle attività che si svolgono e la loro cadenza, curandosi anche di avvertire il cliente sulle novità che, di volta in volta, si verificano. Il disegno di legge formalizza questo importantissimo ruolo di fatto svolto dall’avvocato. Perplessità possono sorgere, tuttavia, quando, uscendo da una rappresentazione ideale dei rapporti tra difensore e assistito, si entri nel mondo reale e ci si accorga che il rapporto fiduciario è solo formalmente “effettivo” e “solido” ed è, in realtà, spesso equiparabile ad una corsa ad ostacoli o ad una caccia al tesoro, dell’avvocato che cerca il cliente o viceversa. Di questo livello di realtà, il disegno di legge n.2435 non sembra curarsi troppo, ma confidiamo che il decreto delegato possa rimediare e che stavolta, come detto sopra, non ci si trovi a dover rimpiangere la saggezza popolare ricordata dall’adagio iniziale.
La risposta del pm: Assolutamente no. Occorre premettere cha il sistema di notificazioni italiano è tra i più farraginosi e inefficaci che si conosca. L’attuale sistema notifiche comporta un dispendio di energie e di tempo (tra servizio U.N.E.P., invio di cartoline e attesa delle ricevute, ricerche a mezzo P.G., ulteriori ricerche, e infine la tanto attesa notifica al difensore), tale che tra l’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e l’effettivo esercizio dell’azione penale passano in media dai 7 agli 8 mesi, quando non si arriva addirittura all’anno, e spesso anche di più. E nel frattempo, però, in molti casi l’indagato ha già nominato il difensore di fiducia, e ha anche chiesto di essere ammesso al patrocinio gratuito a spese dello Stato. La conoscenza del processo penale sarebbe comunque salvaguardata dagli avvisi contenuti nel primo atto notificato all’indagato, che deve contenere l’espresso avviso che le successive notificazioni saranno effettuate mediante consegna al difensore di ufficio, anche con modalità telematiche, e che l’indagato abbia l’onere di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare le comunicazioni e di comunicargli ogni mutamento dello stesso; e, in ogni caso, nell’atto di nomina del difensore di fiducia, in cui deve essere inserito l’avviso che l’indagato ha l’onere di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare le comunicazioni e di comunicargli ogni mutamento dello stesso. Questi accorgimenti dovrebbero essere sufficienti ad assicurare la piena conoscenza, o comunque conoscibilità, del processo penale da parte dell’indagato durante le indagini preliminari. Anzi, occorrerebbe prevedere che le notifiche all’indagato siano sempre fatte al difensore, sin dal primo atto del procedimento, nel caso in cui abbia già nominato un difensore di fiducia. Nessun problema di conoscenza sembra sussistere poi in relazione alla notifica degli avvisi di fissazione delle udienze – che siano preliminari, dibattimentali, di prevenzione o altre – direttamente al difensore per conto dell’imputato, atteso che ormai questi è a conoscenza del procedimento penale nei propri confronti e, per l’appunto, ha già un difensore.
La risposta dell'avvocato:Si rischia certamente di creare una “ sacca “ di ignoranza del processo, ma la norma di cui al punto della delega presenta altre insidie, laddove, in primis, si pone in contrasto con lo stesso principio della volontarietà della elezione di domicilio e del luogo della elezione di domicilio di cui al testo vigente dell’art. 161 comma 1 c.p.p., che grava comunque l’imputato dell’onere di comunicazione della elezione di domicilio e di ogni suo mutamento, prevedendo che in caso di mancanza o rifiuto le notificazioni siano eseguite presso il difensore. Anche il punto della delega sulle notificazioni presso il difensore di ufficio successive alla prima, si pone in contrasto con la possibilità, per il difensore di ufficio, di poter rifiutare la elezione di domicilio della persona sottoposta ad indagini ai sensi dell’art. 162 comma 4 bis c.p.p.. La norma in questione del resto ha lo scopo di contrastare la prassi diffusa della elezione di domicilio forzata presso il difensore di ufficio, e la diffusione del fenomeno della c.d. “falsa reperibilità” dell’imputato, con conseguente possibilità di procedere in assenza dello stesso ai sensi dell’art. 420-bis comma 2 c.p.p. Infatti nella pratica la normativa antecedente alla introduzione del comma 4 bis dell’art. 162 portava ad una distorsione del principio della effettiva conoscenza del processo da parte di quei soggetti, spesso di nazionalità straniera e con scarsa comprensione della lingua, che, invitati ad eleggere domicilio presso il difensore di ufficio, non avevano più alcuna effettiva conoscenza del procedimento perché senza fissa dimora e con impossibilità di essere rintracciati dal difensore medesimo. Paradossale è poi l’indicazione contenuta alla lettera n) dell’art. 2 del Disegno di legge per cui sarà necessario prevedere che non costituisca inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale del difensore la omessa o ritardata comunicazione all’assistito, imputabile al fatto di quest’ultimo. Al netto del fatto oggettivo che il sistema della notificazione per legge mediante consegna al difensore trasforma il professionista in una sorta di “messo notificatore” o, ancora peggio, di “postino” imponendogli un obbligo di fonte primaria che esula dalla sua stessa funzione, invero già presidiata da specifici doveri deontologici di informazione nei confronti della parte assistita, la stessa previsione di esonero da responsabilità, “confusamente” ancorata al fatto imputabile all’imputato, riduce significativamente la stessa concessione che, comunque, porterebbe alla necessità di un giudizio di accertamento della causa di esclusione della responsabilità, con una costante esposizione del difensore ad azioni di natura risarcitoria.
La risposta del docente: In molti passi della delega si percepisce la tendenza a riversare sugli avvocati le inefficienze del sistema processuale oppure a gravare la difesa di adempimenti che appesantiscono inutilmente l’incarico. Penso, alla introduzione della necessità di un mandato ad hoc per l’impugnazione (art. 7, lett. a) che è una complicazione inutile soprattutto nel caso di nomina fiduciaria.