31 maggio 2021

La riforma del processo penale. 7. il giudizio monocratico: tutte le risposte

Da qualche mese ci stiamo occupando della riforma del processo penale esaminato dalla commissione c.d. Cartabia e prossimamente all'attenzione del Parlamento.

Lo stiamo facendo per sezioni e con il metodo dell'intervista, con poche domande rivolte a un giudice, un pubblico ministero, un avvocato e un docente universitario.

Abbiamo pubblicato i contributi secondo l'ordine di ricezione, in maniera casuale. Il piano completo dell'opera è consultabile al → link.

Terminate le varie sezioni pubblicheremo le risposte di tutti i professionisti del processo in un unico contributo.

Proseguiamo oggi con la sezione Il giudizio monocratico, per il quale abbiamo rivolto le nostre domande a Francesco Giarrusso (giudice), Anna Maria Siagura (pm), Vincenzo Pillitteri (avvocato) e Luigi Ludovici (docente).





1-  La riforma intende introdurre un’udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta, in cui il Giudice sarà chiamato, tra le altre cose, a valutare se sussiste una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria. Le pare una riforma cui potrebbe conseguire un reale effetto deflattivo dei giudizi, oppure si rischia di inserire un passaggio procedurale che dilaterà i tempi processuali?

La risposta del giudiceIn un contesto in cui, come si è visto, vi sono obiettivi e plurimi riscontri circa il fatto che l’udienza preliminare funzioni male, tanto da essersi ventilata in dottrina la possibilità di una sua soppressione, la direttiva di delega di cui all’art. 6 del ddl. Bonafede non può che suscitare forti perplessità. Quest’ultima, infatti, propone di introdurre per i reati a citazione diretta di cui all’art. 550 c.p.p. un’inedita udienza filtro, celebrata dinnanzi a un giudice monocratico diverso da quello dibattimentale, nella quale, da un lato, dovrebbero essere richiesti (a pena di decadenza) alcuni riti alternativi, e, da un altro lato, il decisore sarebbe chiamato a valutare la sussistenza o meno dei presupposti per pronunciare sentenza di non luogo a procedere. 

In estrema sintesi, in modo del tutto anomalo, si vuole dar vita per i reati finora giudicati con il rito a citazione diretta a una “mini udienza preliminare”, finalizzata «a consentire un vaglio volto a evitare la comunque onerosa celebrazione di dibattimenti inutili, che appare scontato o notevolmente probabile che si concluderanno con il proscioglimento». 
Ebbene, nella realtà, una tale modifica che a parere dello scrivente, è frutto di una palese sfiducia nei confronti della selezione effettuata da parte dei pubblici ministeri circa le azioni penali meritevoli di essere esercitate, produrrebbe un significativo aggravio per la macchina della giustizia, ossia un effetto marcatamente in contrasto con i propositi di economia processuale, perseguiti dai riformatori. 
Infatti, è del tutto illusorio pensare che la mera fissazione di un filtro prognostico sulle imputazioni azzardate possa davvero sfoltire un gran numero di regiudicande. 
È alquanto criticabile il fatto che nell’art. 6 del ddl. Bonafede il Governo faccia riferimento soltanto al giudizio abbreviato, al patteggiamento e all’oblazione e non anche alla messa alla prova per adulti. Ci si riferisce, ad esempio, oltre a quanto si è osservato in tema di riti alternativi, al fatto che il Governo, in modo assai criticabile, non ha aggiornato la regola di giudizio per emanare la sentenza di non luogo a procedere in siffatta udienza davanti al giudice monocratico, all’ultima versione dell’art. 425, comma 3, c.p.p. di cui è proposta l’introduzione. 
In altre parole, sembra evidente che allorquando le forze politiche hanno deciso di cambiare, rispetto alle bozze iniziali di legge delega, la formulazione letterale del criterio decisorio dell’udienza preliminare, si sono dimenticati di coordinare tale innovazione con le proposte in tema di Tribunale in composizione monocratica.
Così si esprime la Relazione illustrativa al ddl., cit., p. 8. a prediligere il rinvio a giudizio rispetto al non luogo a procedere in una percentuale altissima di casi. Un tanto porta a dire che l’analisi costi e benefici, compiuta dal delegante quando ha ideato tale nuova udienza, non sia corretta: a fronte di una percentuale probabilmente molto bassa di regiudicande che la stessa riuscirebbe a filtrare, si verificherebbe un sicuro, significativo aumento di costi a carico di un sistema giustizia già in estrema difficoltà. In un momento in cui emerge con sempre con maggiore chiarezza che la scelta di creare l’udienza preliminare si è dimostrata censurabile, dar vita a un nuovo meccanismo pressoché analogo per i reati a citazione diretta non rappresenterebbe altro che la ripetizione di un errore. Non si può che auspicare pertanto che, nel dibattito parlamentare, la direttiva di delega venga del tutto eliminata.

La risposta del pmLa Riforma Bonafede nell'ipotizzare un momento di verifica antecedente alla fase dibattimentale per i reati perseguibili mediante la citazione diretta introduce una curiosa anomalia di sistema, nella misura in cui disattende di fatto la voluntas sottesa alla legge Carotti del 1999, che nel conferire, come noto, all'udienza preliminare la funzione di filtro dell'accusa, di fatto operava una netta distinzione sostanziale e procedurale tra i reati di maggiore gravità e allarme sociale e quelli passibili di un giudizio, per così dire, semplificato.

La proposta di fatto delinea una sorta di udienza preliminare 'speciale' che, contrariamente alle obiettive finalità e agli auspici del legislatore del 1988, di fatto rende più farraginoso anche il sistema per i reati il cui disvalore penale è stato già stimato contenuto dal normoteta stesso, che ha demandato all'iniziativa formale del p.m., mediante la vocatio diretta, la formalizzazione della chiamata in giudizio, difformemente da come avviene nei termini, per così dire, ordinari, costituiti dalla richiesta di rinvio a giudizio, seguita dal decreto che lo dispone.
Posto che la citazione diretta dovrebbe, in effetti, in tesi sfoltire il carico giudiziario ed evitare quell'ulteriore frammento processuale, che concorre altresì a determinare, in un certo senso, le maggiori lungaggini del giudizio, pur se per le note ragioni di garanzia, il vaglio intermedio del giudice monocratico di fatto determinerà un'interruzione rispetto all'iter sino ad oggi seguito.
L'ulteriore segmento processuale non farebbe altro, invece, che complicare, allungare o comunque certamente non semplificare quello che, originariamente, era stato pensato come un giudizio più agile e spedito.
Vi sono, poi, altre ragioni di biasimo rispetto alla prospettata riforma, a parere di chi scrive. 
La prima doglianza si fonda sul potenziale contrasto della novella rispetto ad altri istituti, di recente introduzione, generati, potremmo dire, da un potenziamento del ruolo del p.m. Il legislatore ha, infatti, progressivamente introdotto diversi strumenti che ben potrebbero fungere da moduli di smistamento del 'penalmente rilevante' o del perseguibile, senza determinare ulteriori tempi e passaggi di rivalutazione interni al giudizio, consentendo invece uno sfoltimento a monte, per quelle vicende per le quali il processo appaia non necessario o non opportuno. 
Criterio, quello dell'opportunità dell'azione penale, di certo non scevro da critiche e da timori connessi, benché in vero già in uso in altri ordinamenti europei, primo fra tutti quello spagnolo, con risultati soddisfacenti, in specie sotto il profilo della 'produttività' degli uffici giudiziari. 
Nei limiti di compatibilità con il nostro sistema di civil law, tale scelta appare avallata di fatto dall'introduzione, propriamente nei processi a citazione diretta, di taluni riti speciali, in primis la sospensione del processo con messa alla prova ai sensi dell'art. 168 bis c.p., ad opera della l. 67 del 2014, oltre che dal ricorso alla formula di estinzione del reato conseguente alla realizzazione di condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p., elaborata più di recente dalla l. 172 del 2017, e ancor più dalla possibilità di archiviazione per la tenuità del fatto, che tra le sue larghe maglie ben potrebbe consentire, anche da parte del p.m., una valutazione sulla necessarietà dell'azione penale, salvi i poteri del giudice per le indagini preliminari, in veste di garante, e della persona offesa nella verifica sulla correttezza della scelta di inazione operata.
Una seconda critica afferirebbe, poi, in un'ottica più pragmatica, all'organizzazione degli uffici giudiziari: è noto, infatti, come il problema della mancanza di organico sia ritenuto oggi un vero deficit strutturale. Ora, laddove si dovesse ipotizzare l'inserimento di un'ulteriore fase filtro appunto, attribuita expressis verbis ad un giudice diverso da colui che sarà eventualmente chiamato a condurre il giudizio conseguente, per ovvie ragioni di incompatibilità, stente il pre-giudizio svolto, non si comprende in vero come, soprattutto nei tribunali minori, le già esigue sezioni possano riuscire a coprire questi diversi ruoli nello stesso procedimento.

La risposta dell'avvocatoAl fine di esprimere una completa opinione giuridica circa la modifica proposta dal legislatore in ordine all’istituzione di un’udienza filtro per i reati a citazione diretta ex art. 550 c.p.p. è necessario fare una breve premessa. Ho particolarmente seguito gli interventi riportati nel Dossier della riforma del processo penale e devo riconoscere come la dottrina e le associazioni giuridiche degli avvocati non abbiano condiviso tale proposta. Ebbene l’introduzione di una udienza filtro con l’assegnazione della stessa ad un giudice diverso rispetto al titolare del dibattimento lascia invalicabili sospetti di carattere inquisitorio. Secondo quanto riportato nella proposta di riforma il Giudice (“predibattimentale”?) deve dare una valutazione attraverso la conoscenza del fascicolo del PM in modo molto simile a quanto avviene in sede di udienza preliminare. A conclusione di tale vaglio potrà prosciogliere l’imputato non soltanto per un causa estintiva o anche per la sussistenza di una causa di non punibilità ma anche eventualmente nel merito (tanto da richiamare le formule assolutorie di cui all’art. 530 c.p.p.). A ciò si aggiunge l’ipotesi del proscioglimento a seguito di un giudizio prognostico circa l’insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti che non potranno “ragionevolmente” supportare la prospettazione accusatoria nel successivo dibattimento. Ebbene, tale previsione normativa appare particolarmente distaccata dai principi del giusto processo e in contrasto con norme di rango costituzionale. In primis è necessario evidenziare che l’eventuale vaglio negativo da parte del “Giudice predibattimentale” apparirebbe particolarmente suggestivo per il Giudice del dibattimento al quale verrà trasmesso il fascicolo (con nuova separazione fascicolo PM contenente atti di indagini preliminari e fascicolo dibattimentale con atti ex art. 431 c.p.p.) e che potrà esserne notevolmente condizionato. Sotto altro profilo, la norma appare, prima facie, in contrasto con l’art. 111 comma 4 Cost. e nello specifico con il principio del contraddittorio nella formazione della prova a supporto del decisum. Detto ciò, al fine di dare una risposta al quesito posto, ritengo che, con tale proposta i tempi processuali verranno dilatati notevolmente ove si consideri che, proprio in ordine ai reati ex art. 550 c.p.p., il giudice, tranne i casi di udienze che nella prassi vengono definite di distribuzione (meri rinvii per assegnazione ad altri giudici o altro), può procedere all’apertura del dibattimento, alle richieste di prova e all’istruttoria dibattimentale. L’introduzione della suddetta udienza dovrà passare da alcuni momenti di stasi ovvero: scelta del Giudice predibattimentale, vaglio degli atti del fascicolo, eventuale superamento della fase, eventuale trasmissione del fascicolo ad altro giudice per la prosecuzione del dibattimento. Tali passaggi creeranno rallentamenti procedurali a causa dei ridotti organici della magistratura ovvero per lo svolgimento di tale accertamento predibattimentale che potrebbe articolarsi in diverse udienze.


La riforma prospettata con riferimento ai casi di citazione diretta a giudizio propugna una sostanziale abolizione della categoria e la contestuale introduzione di una ipotesi speciale di rito monocratico “a procedura rafforzata” connotato da un preliminare controllo giurisdizionale sulle scelte compiute dall’organo dell’accusa al termine delle indagini preliminari. Si vuole in sostanza frapporre, anche in questo caso, un diaframma tra le indagini preliminari e l’effettiva celebrazione del giudizio dibattimentale che, da un punto di vista strutturale, riproduce il meccanismo proprio dell’udienza preliminare. Nello stesso tempo, si tratta però di una “udienza preliminare” assai atipica.  E questo non tanto perché il rinvio a giudizio è già stato disposto o perché l’organo competente a sindacare preliminarmente le determinazioni assunte dal p.m. non è, come di consueto, il GUP ma il Tribunale, sia pure a composizione monocratica. Queste deviazioni dal modello si limitano infatti a scalfire soltanto la superficie dell’istituto senza cambiarne la sostanza. Ma la novella contiene anche un ulteriore elemento di novità che, a mio avviso, assume al contrario una portata dirompente rispetto alle coordinate generali del sistema. Mi riferisco naturalmente al fatto che il Tribunale è tenuto ad emettere sentenza di non luogo a procedere anche quando accerti che gli elementi acquisiti, se confermati in giudizio, consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria. Rispetto all’udienza preliminare ordinaria, il filtro che si vuole così introdurre vede calibrati i suoi esiti rispetto ad una regola di giudizio che ha però ad oggetto non – come nel rito ordinario – l’opportunità dell’azione e quindi la non superfluità del vaglio dibattimentale ma l’esito stesso del processo: e in un sistema ove la responsabilità dell’imputato può essere affermata soltanto ove la prova della colpevolezza emerga oltre ogni ragionevole dubbio, appare difficile sostenere che la ragionevolezza di cui parla la novella non possa essere che quella di cui all’art. 533 c.p.p. Venendo quindi alla domanda, credo che, se così stanno le cose, l’inedito meccanismo processuale che si intende inoculare nel sistema si candidi, se correttamente ed effettivamente applicato, quale importante strumento deflattivo se non altro rispetto al filtro a maglie ben più larghe attualmente offerto – ove prevista - dall’udienza preliminare. Per converso, sembra però doveroso rilevare che, in un’ottica più generale, non si avrebbe, rispetto ad oggi, un surplus di deflazione così significativo visto che, se effettivamente vi è la convinzione che gli atti di indagine consentano una sentenza ex art. 530 c. 2 c.p.p., è lecito ipotizzare che l’imputato decida comunque di percorrere la strada del rito abbreviato. Ma se così stanno le cose è allora evidente che, quantomeno nei casi di citazione diretta, il meccanismo in esame finisce per risolversi per lo più, in un elemento di ulteriore aggravio della procedura, con conseguente dilatazione dei tempi processuali. Sullo sfondo di questo scenario si stagliano poi le non poche riserve circa l’effettiva compatibilità di un siffatto congegno con il nostro sistema processuale, come è noto tradizionalmente refrattario - per precisi vincoli sistematici e costituzionali - a qualsiasi forma di preclusione del vaglio dibattimentale che si voglia fondata su una valutazione prognostica di fondatezza o meno dell’imputazione frutto di una valutazione dei risultati delle indagini. 


2- L’articolo 12 del disegno di legge prevede dei termini entro cui concludere i giudizi. Per quello innanzi al Tribunale monocratico la celebrazione del processo dovrebbe avvenire, senza distinzione alcuna, entro un anno, col rischio di sanzioni disciplinari ove i termini non siano rispettati per negligenza inescusabile. Quale il suo giudizio al riguardo?

La risposta del giudice: In merito alla durata dei processi, la ritengo meritevole di attenzione anche in considerazione, come avviene per le stragrandi categorie professionali, regolamentare la sanzionabilità di quei comportamenti, qualificabili dal legislatore “negligenti” da parte di chi amministra la giustizia, costituendo un valido strumento di controllo. 
Pertanto, alla luce della riforma, risulterebbe assolutamente necessario, una regolamentazione sul monitoraggio della conduzione delle attività processuali.
Però, una attenta critica va evidenziata in merito ai termini di durata circoscritti in “un anno” entro i quali deve avvenire la celebrazione di un procedimento. 
Pertanto, da un lato è ragionevole pensare ad un contenimento delle fasi processuali entro limiti ragionevolmente contenuti, ma dall’altro, non si può tacere, sull'ambito delle competenze del Tribunale Monocratico, ove possano delinearsi fenomeni di illeciti diversi tra loro nei quali risulterebbe ipotizzare vari tempi di durata dei procedimenti a secondo delle tipologie di reato.
Quindi, a parere dello scrivente, corretto indicare un tempo di durata, ma sicuramente più elastico, benché comunque contenuto, per consentire e garantire alle ipotesi penalmente più gravi un lasso di tempo maggiore per un sereno giudizio da parte degli operatori della giustizia. 

La risposta del pmIn ordine alla durata dei processi, perché essa sia davvero ragionevole, appare necessario assumere una posizione chiara ed univoca, che consenta pochi margini di intervento.

In tal senso, come avviene per tante, se non per tutte le categorie professionali, delineare anche la sanzionabilità di comportamenti, qualificabili come negligenti da parte di chi amministra la giustizia, può costituire un ulteriore elemento di controllo. 
Assolutamente opportuno, se non addirittura necessario, appare quindi il monitoraggio sulla conduzione delle attività processuali, in linea peraltro con le più recenti scelte anche in tema di avocazione delle indagini ai sensi dell'art. 412, comma 1, c.p.p., come modificato dalla l. 103 del 2017.
Un dubbio va tuttavia sollevato rispetto ai termini ipotizzati. Se è pur vero che per il contenimento delle fasi appare necessario definire stringenti limiti temporali, nel contempo non si può disconoscere come, anche nell'ambito delle competenze del tribunale in composizione monocratico, adito con citazione diretta, possano individuarsi fenomeni criminali molto diversi tra loro. Non è possibile, quindi, livellare, in questo caso verso il basso peraltro, tutti i tempi di durata; si pensi ad ipotesi molto difformi tra loro, quali il giudizio per un furto semplice e quello per lesioni personali stradali, anche aggravate, a norma dell'art. 590 bis c.p. In queste evenienze, dovrebbe essere possibile immaginare un margine più elastico, benché comunque contenuto, per consentire gradatamente di riservare alle ipotesi penalmente più gravi un lasso di tempo maggiore per il giudizio. 
Tuttavia, anche in questo caso, con una obiezione che reitera quella già prospettata in merito alla prima delle questioni trattate sulla riforma, afferenti al giudizio a citazione diretta, non possono disconoscersi le problematiche connesse all'organico degli uffici. E' evidente che, pur con tutti i migliori auspici, ipotizzare un'accelerazione dei tempi della giustizia, mediante una riduzione controllata dei termini, ad organico immutato, si rivela un'utopia. Non si può, infatti, immaginare di poter sfoltire il numero attuale di processi, fruendo dei magistrati giudicanti oggi in servizio, per il solo fatto che sia imposto un termine di completamento di grado. Per soddisfare tale obiettivo della riforma sarà imprescindibile, dunque, una implementazione della pianta organica, oltre al ricorso preliminare ad altri fenomeni di semplificazione, ai quali si è in parte già fatto cenno, in uno con una seria opera di depenalizzazione.

La risposta dell'avvocatoL’art. 12 citato impone dei termini entro i quali dovranno concludersi le fasi processuali (primo grado, appello e fase di legittimità). Ebbene, tale previsione, con riferimento al termine di un anno per la celebrazione del rito monocratico dibattimentale, secondo il mio punto di vista, appare poco ragionevole in quanto la durata del processo in generale deve essere commisurata alla complessità del giudizio dibattimentale. Il Giudice non può essere condizionato irragionevolmente da una tempistica processuale particolarmente breve. Tutto ciò andrà a discapito di un giusto processo e di un attento vaglio degli elementi probatori da porre a supporto della sentenza tanto per i reati di minore allarme sociale che, a maggior ragione, per quelli che destano un maggiore disvalore.

La risposta del docente: L’idea di prevedere dei termini di natura strettamente processuale entro cui i giudizi devono essere celebrati e portati a compimento circola da tempo ed oggi assume carattere sempre più centrale a fronte del profondo ridimensionamento che negli ultimi anni ha subito l’istituto della prescrizione. Come insegnano i Maestri, il processo stesso è una pena e pertanto il suo dilatarsi potenzialmente all’infinito è uno dei principali mali da combattere in ogni Società civile. Detto questo, l’intervento prospettato non convince, a mio avviso, almeno per due ordini di ragioni. Innanzitutto, bisogna operare una scelta di campo: se si vogliono introdurre dei termini questi non possono che essere perentori perché soltanto così si offre all’imputato – ma anche alla persona offesa ed alle parti eventuali – la garanzia di una sentenza che sia giusta anche nel quando. Il disegno di legge non fa invece nulla di tutto questo prevedendo quale unica conseguenza dell’inosservanza dei termini previsti la possibilità di comminare una sanzione disciplinare nella eventualità che il magistrato non abbia adottato le misure organizzative ritenute necessarie per rispettarli, sempre peraltro che sia a lui imputabile una negligenza particolarmente qualificata (id est, negligenza inescusabile). Insomma, siamo in presenza di obblighi, quello di rispettare i termini e quello di adottare le misure organizzative all’uopo necessarie, che in entrambi i casi sono, in definitiva, privi di sanzione e pertanto sforniti di qualsivoglia portata cogente. Sotto altro profilo, devo anche dire però che non mi convince affatto l’idea di prevedere termini configurati in maniera così rigida e generalizzata. Al contrario, sarebbe il caso quantomeno di associare ai termini di durata dei meccanismi tali per cui, al verificarsi di specifiche fattispecie, sia consentito dar luogo ad una proroga e/o ad una sospensione degli stessi: il che permetterebbe di assicurare che ogni processo abbia il Suo tempo, calibrato cioè non solo in astratto ma anche sulla base delle specificità della singola vicenda trattata nonchè degli imprevisti che si possono medio tempore verificare e tali da giustificare una parziale dilatazione dei termini ordinari.


30 maggio 2021

Quello pseudo garantismo che dà ragione ai giustizialisti - di Daniele Livreri

 

 


Soltanto qualche mese fa un’ex parlamentare, oggi conduttrice televisiva, commentò la sua assoluzione dicendo: "oggi ha vinto la giustizia, io ho solo perso 7 anni di serenità", aggiungendo di essersi sempre difesa nel processo e non dal processo.

Ovviamente, forse per un riflesso condizionato, le sue dichiarazioni mi suscitarono empatia, pensando alle sofferenze patite, per più di un lustro, dall’interessata.

Tuttavia, ancor di più per questo trascorso, mi hanno sconcertato le frasi delle medesima signora, allorquando qualche giorno fa, nel corso di un‘intervista ha dichiarato che, pur essendo una convinta garantista, <<quando si tratta di violenza su donne e bambini il garantismo non va bene più, occorrono sentenze dure ed esemplari>>, precisando poi che <<soltanto LA CERTEZZA che i RESPONSABILI vengano condannati in maniera esemplare>> può aiutare le donne vittime di violenza a denunciare.

Ove qualcuno non avesse ben compreso, al termine delle sue esternazioni, l’intervistata ha riassunto “in due parole: se le sentenze non sono esemplari, eclatanti, rappresentano un freno alla libertà e alla serenità delle donne”.

Dunque nella versione dell’odierna conduttrice televisiva una “garantista” pensa che la presunzione di innocenza, la possibilità di difendersi nel processo, il principio di proporzionalità delle pene rispetto al fatto commesso, valgano per gli ACCUSATI di certi reati, ma non per altri. Anzi, in fondo, per una “garantista” non soltanto potremmo rinunciare, per certe imputazioni ovviamente, ad un GIUSTO processo, ma addirittura POTREMMO RINUNCIARE AL PROCESSO: perché se vi sono già dei RESPONSABILI prim’ancora di un processo, basterebbe comminare una pena, ovviamente esemplare, senza sperperare soldi pubblici nella costosa macchina processuale. La storia potrebbe pure fornirci qualche bell’esempio di pene esemplari eseguite a prescindere dal processo.  

Certo poi sarebbe un po’ complicato trovare qualche accusa per la quale il garantismo andrebbe ancora bene;

potrebbe ritenere l’ex rappresentante della nazione che chi sia accusato di una strage meriti un qualche cieco garantismo? Non credo.  

Lo meriterebbe forse chi è accusato di far parte di una qualche associazione mafiosa? No di certo.

Chi sia accusato di disastro ambientale? Non penso.

Il catalogo di accuse per le quali il “garantismo non va bene più potrebbe essere sterminato, perché financo l’accusa di reati patrimoniali può rimandare alla distruzione di una vita.   

Ma la risoluzione del dilemma è facilmente risolvibile:

un garantista pensa che QUALSIASI ipotesi accusatoria dovrà essere vagliata in un processo garantito e che tanto più l’accusa è grave, tanto più rigoroso sarà l’accertamento probatorio da condurre. Un garantista ritiene che perfino CAINO debba rispondere in proporzione alle sue colpe e non divenire uno strumento da sottoporre a pene esemplari, financo per le più nobili esigenze sociali.    

Non so perché, ma mi pare che le parole dell’ex parlamentare equivalgano più o meno a quelle di chi rivendica orgogliosamente a sé il ruolo di giustizialista, denunciando che alla fine il garantismo non sia altro che un mezzo per i più furbi per farla franca. Ma per fortuna si tratta soltanto di mistificazioni del garantismo.   

 

 

 

 

La Riforma del Processo penale - 1.4. la riforma dell'udienza preliminare - Le risposte del Docente, Daniela Chinnici (*)

La nuova rubrica sottoporrà alcune domande a un giudice, un pubblico ministero e un avvocato.
In questa sezione ci occupiamo della riforma dell'udienza preliminare e con tre domande al Docente, Daniela Chinnici.
Il piano completo dell'opera è consultabile sulla pagina dedicata di questo blog (link).




Il progetto di legge per la “DELEGA AL GOVERNO PER LA MODIFICA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE, DEL CODICE PENALE E DELLA COLLEGATA LEGISLAZIONE SPECIALE E PER LA REVISIONE DEL REGIME SANZIONATORIO DELLE CONTRAVVENZIONI”, è all’esame, in sede referente, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, che ha anche svolto numerose audizioni inerenti il testo della riforma.


1- Ritiene opportuna e davvero praticabile una tale modifica della regola di giudizio ex art. 425 c.p.p. ?  

Come noto, l’originaria morfologia dell’udienza preliminare - “filtro delle imputazioni azzardate” - in cui la sostenibilità o meno della piattaforma accusatoria, sulla base dello stato degli atti, era il solo discrimen su cui il giudice doveva calibrare la sua actioviene modificata con la ‘riforma Carotti’, atteso il totale fallimento della funzione di screeningIl giudice è stato cosìdotato di mezzi di intervento, attraverso l’interpolazione dell’art. 421bis e la riformulazione dell’art. 422 c.p.p., sotto la veste, rispettivamente, di sollecitazione al pubblico ministero di integrazione delle indagini e, direttamente, di assunzione di prove, seppure se ex ante orientate nella direzione dell’evidenza del proscioglimento. L’udienza è stata, quindi, trasformata da decisione di rito allo stato degli atti a giudizio di merito ‘in miniatura’ vero e proprio, come sottolineato in senso critico da larga parte della dottrina e, di contro, favorevolmente dalla giurisprudenza e dalla Corte costituzionale (per prima cfr. Corte cost., n. 224 del 2001), peraltro con una possibile dilatazione dei tempi investigativi, oltre che della durata in assoluto del processo, come logico corollario di tali innestate attività. E indubbio come la regressione dell’attività istruttoria dalla sede dibattimentalefisiologica, alla fase originariamente deputata al controllo si pone in contrasto con l’art. 111 Cost., che eleva il contraddittorio delle parti a metodo epistemico da osservare, oltre che - ma è la seconda faccia della stessa medaglia - a diritto dell’imputato inderogabile (tranne i casi eccettuati, di cui al comma 5 del medesimo disposto).

Nonostante le modifiche dalla cifra istruttoria, le aspettative sottese alla riforma del 1999 sono andate deluse. L’udienza è rimasta, infatti, una fase sostanzialmente impotente alla funzione di filtro, con un passaggio massiccio a dibattimento delle imputazioni verificate, ritenendosi ostative al proscioglimento, nella lettura confermatapure di recente, dalle sezioni unite, tutte le situazioni in cui gli elementi probatori consentano letture aperte, non univoche ovvero indirizzate verso una diversa valutazione al termine dell’itinerario cognitivo dibattimentale

Sempre nell’ottica del potenziamento della funzione di filtro, nell’oramai mutato ‘orizzonte di senso’ dell’udienza preliminare, si incastona la modifica della regola di giudizio proscioglitiva, di cui all’art. 425, comma 3, c.p.p., del d.d.l. in questione, che aggiunge ai casi previsti quelli che “non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio. Invero, la formula aggiunta appare più uno slogan, una sorta di ‘raccomandazione’ alla massima ponderazione valutativa degli atti, più che un nuovo effettivo criterio valutativo, quindi dalla portata operativa verosimilmente vuota, se non in casi di eccezionale evidenza, atteso che dall’espressione non si intravede alcun quid pluris rispetto al criterio decisorio già scandito nella formulazione vigente. Peraltro, al di là del verosimilmente mancato impatto innovativo, dal punto di vista dell’ortodossia del sistema, la formulazione non è un segnale favorevole, in quanto accentua la connotazione dell’udienza pregiudiziale quale vero e proprio giudizio nel merito, con la conseguenza di avallare sempre più il favor per l’anticipazione della cognizione in una fase che si declina sugli elementi raccolti nelle fasi delle indagini preliminari e della udienza medesima, ex artt. 421bis e 422 c.p.p., piuttosto che nel contraddittorio dibattimentale, come impone la doverosa lettura del ‘giusto processo’, di cui all’art 111 CostNon ultimo, se il canone divenisse realmente operativo, il rischio sarebbe quello di conferire alla decisione del giudice dell’udienza preliminare una sorta di imprimatur nel senso della colpevolezza, con sicuri riverberi, in senso contrario al canone del favor rei, nella successiva valutazione del giudice dibattimentale, inquinando la necessaria virgin mind.


2-Le pare un buon rimedio per scongiurare l’elusione delle regole del codice sui termini per le indagini?

L’intento teoricamente è apprezzabile, per contenere la dilatazione dei termini delle indagini, vista la già prevista estensione del tempo per le investigazioni - giustificata dal principio di completezza delle stesse, quale esplicazione del canone dell’obbligatorietà dell’azione penale - se si considera anche l’ulteriore tempo successivo alla scadenza dei termini di durata massima, utilizzato dal pubblico ministero per l’analisi degli elementi investigativi al fine delle sue determinazioni. Il primo passo, quanto al contenimento della durata di indagine, come noto, è stato previsto dalla c.d. riforma Orlando, con la rimodulazione dei termini in tre diverse scansioni, a seconda delle tipologie di reati, con l’interpolazione del comma 3bis nell’art. 407 c.p.p. (tre mesi, tre mesi prorogabili di altri tre e quindici mesi) e la connessa modifica della avocazionetramite la modifica dell’art. 412, comma 1, c.p.p, in caso di mancata determinazione del titolare delle indagini nel termini prescritti. 

Il nuovo congegno previsto dal d.d.l. Bonafede si inserisce nello stesso contesto, con lo scopo di limitare i tempi investigativi, evitando empasse nell’attività di indagine o dilazioni insindacabili, alla luce del pervicace orientamento giurisprudenziale che ritiene appannaggio esclusivo del pubblico ministero l’adempimento dell’iscrizione della notitia criminis nel registro apposito, senza possibilità alcuna di un sindacato giudiziale. Si è, così, previsto che l’interessato possa chiedere l’accertamento del dies a quo delle indagini al giudice, ossia della data di iscrizione della notizia di reato, debitamente motivando in fatto e in diritto la richiesta, essendo tonificati con l’inutilizzabilità gli atti compiuti oltre terminePur dovendo aspettare la ‘prova di resistenza’ della modifica nella prassi applicativa, non sembra che questa facoltà possa sortire ricadute concrete sul rispetto dei termini per le indagini, innanzitutto perché non è stato previstonel quomodo, il controllo sul contenimento delle indagini, nel corso dello stesso itinerario investigativo, viste le proroghe possibili basate sulle motivazione, necessariamente unilaterali, del titolare dell’accusa, e, in secondo luogo, perché continuano ad essere possibili elusioni dell’adempimento di cui all’art. 330 c.p.p., tramite iscrizioni tardive o nuove iscrizioni. Peraltro, il congegno è indebolito dalla subordinazione alla richiesta motivata dell’imputato, che pare evenienza assai improbabile e, in ogni caso, la valutazione importerebbe necessariamente una invasione giudiziale in ambiti investigativi, segno di un’ulteriore “nostalgia inquisitoria” del giudice istruttore del c.p.p. 1930. 


3-Il controllo del GUP sulla durata delle indagini attribuisce alGiudice nuove “competenze di giudizio”: sono compatibili con la valutazione cui è finalizzata l’udienza preliminare? 

Come detto, non può non sottolinearsi che il controllo sui tempi di indagine influisce in punto di nuovi ambiti cognitivi del giudice dell’udienza preliminare, che, del resto, si inseriscono appieno nella oramai avallata lettura eterodossa della funzione del gip quale giudice del merito, e non, come avrebbe dovuto rimanere, seppur con modifiche necessarie quanto a efficacia, del controllo della fondatezza dell’imputazione.

Se è vero che i poteri di screening non hanno funzionato, perché assestati sul materiale fornito sostanzialmente dal pubblico ministero, cui è di fatto inopponibile una visione della parte privata, consentire il controllo dei tempi delle investigazioni importerà una invasione di campo per la conoscenza dei materiali investigativi ai fini della relativa decisionecon la conseguenza di rafforzare la funzione del giudice pregiudizialquale organo della cognizione anticipata. Come ultima ricaduta non potranno che compromettersi, ancor più delle attuali evenienze, le eventuali valutazioni del giudice dibattimentalein caso di passaggio alla fase ordinariache, dalle ingerenze valutative del gup, necessariamente orientate nel senso della colpevolezza (in caso di decisione favorevole alla proroga, attesa una conoscenza almeno parziale degli atti del fascicolo del pubblico ministero) non potranno  essere influenzate.


(*) Daniela Chinnici: è Professore associato di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Palermo, nel Corso di Laurea magistrale in Giurisprudenza, presso il Dipartimento di GiurisprudenzaHa conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato. È membro dell'Associazione Nazionale tra gli Studiosi del Processo PenaleFa parte del Comitato editoriale e di redazione della Rivista Archivio Penale. È componente del Collegio dei Docenti del Dottorato di ricerca in Law and Cognitive presso l’Università Cusano, sede di Roma. È autrice di tre monografie: L’immediatezza nel processo penale, Giuffrè, 2005; Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, II ed., Giappichelli, 2009; Il giudizio immediato. Metamorfosi di un modello, Cedam, 2018, e di numerosi articoli, note a sentenze, contributi in volumi collettanei e voci in TrattatiHa curato due volumi: Le misure cautelari personali nella strategia del «minimo sacrificio necessario» (legge 16 aprile 2015, n. 47), Dike, 2015, e, con A. Gaito, Regole europee e processo penale, I e II ed., Cedam, 2016-2018.

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